Di fronte a degli ostacoli, spesso lasciamo la possibilità del successo agli altri, perché non ci riteniamo dei vincenti. Quando consideriamo l’ipotesi di acquisire responsabilità o prestigio, ci convinciamo subito di essere semplicemente degli “impostori”, come un attore che interpreta il ruolo di un pilota, mentre indossa l’uniforme e fa i suoi annunci dalla cabina, e non è in grado di avviare i motori.

La causa profonda della sindrome dell’impostore risiede in un’immagine inutile di come sono realmente le persone al vertice della società. Ci sentiamo impostori non per via dei nostri difetti, ma perché non riusciamo a immaginare che queste persone, sotto la loro superficie patinata, sono inevitabilmente uguali a noi.

La sindrome dell’impostore risale ai tempi dell’infanzia, in particolare a quando i bambini hanno la sensazione che i genitori siano davvero diversi da loro. Per un individuo di quattro anni è impensabile che la madre possa essere stata piccola come lui, che non sapesse guidare un’auto, chiamare l’idraulico, decidere a che ora si debba andare a letto e partire per un viaggio con i colleghi. Il divario sembra assoluto e incolmabile. Le passioni dei bambini non hanno niente a che vedere con quelle degli adulti, che preferiscono stare seduti a parlare per ore (invece che correre fuori), bere birra (che sa di metallo arrugginito). Ci affacciamo alla vita con la netta impressione che le persone capaci e degne di ammirazione non siano affatto come noi.

Questa esperienza infantile si combina con una caratteristica fondamentale della natura umana. Conosciamo noi stessi dall’interno, mentre gli altri solo dall’esterno. Siamo costantemente consapevoli delle nostre ansie e dei nostri dubbi, ma tutto ciò che sappiamo degli altri è ciò che fanno e ci raccontano: una fonte di informazioni decisamente limitata (…).

Ma in realtà il problema è solo che non riusciamo a immaginare che gli altri sono fragili e assurdi come noi. Anche senza sapere di preciso cosa preoccupa o tormenta le persone che esteriormente ci appaiono più invidiabili, possiamo essere certi che qualcosa c’è. Magari non conosciamo esattamente i loro rimorsi, ma di sicuro sono turbati da sentimenti strazianti. Non siamo in grado di dire quale perversione li ossessioni, ma ce ne sarà certamente una. E lo sappiamo perché le vulnerabilità e le pulsioni incontrollabili non sono maledizioni piombate esclusivamente su di noi. Sono condizioni universali della condizione mentale umana.

La soluzione

La soluzione della sindrome dell’impostore sta in un atto di fede: convincersi che le menti degli altri funzionano sostanzialmente come la nostra. Probabilmente tutti sono incerti, dubbiosi e incostanti come noi.

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Un modo per liberarsi dalla sfiducia in se stessi è ricordare le parole di Montaigne, nel XVI secolo: “Nessun uomo è un eroe per il suo valletto” affermava, cioè a dire: i grandi personaggi pubblici non sono così impressionanti per coloro che se ne prendono cura, che li vedono ubriachi, che esaminano le macchie delle loro mutande, che ascoltano i loro dubbi segreti su questioni su cui, in pubblico, mantengono un’opinione ferma, e che li vedono piangere per errori che ufficialmente negano.

In un altro passaggio dei suoi Saggi, Montaigne informa scherzosamente i suoi lettori che “Re e filosofi cagano, così come le signore”. La tesi di Montaigne è che, nonostante l’evidenza dei fatti, non riusciamo a immaginare che le persone più illustri possano sedersi su un gabinetto. Non vediamo mai gente altolocata fare una cosa del genere, mentre siamo ben informati sulla nostra digestione. E poiché abbiamo corpi imperfetti e a volte disastrosi, ci convinciamo che non potremo mai essere re o filosofi o signore; e che se mai dovesse succedere, saremmo solo degli impostori.

Seguendo il suggerimento di Montaigne, siamo spronati ad avere un’idea più sana di come sono davvero le persone potenti. Ma il vero obiettivo è la timidezza psicologica. Montaigne avrebbe potuto dire che re, filosofi e signore sono tormentati da dubbi interiori e sentimenti di inadeguatezza, che sbattono contro le porte e che fanno pensieri strani. Potremmo trasferire queste riflessioni agli amministratori delegati, ai principi del foro, ai giornalisti e agli imprenditori. Anche loro falliscono, possono crollare se sono sotto pressione e ripensano a certe decisioni con vergogna e rimpianto. Queste situazioni riguardano chiunque, come andare in bagno. Le nostre fragilità non ci impediscono di fare ciò che fanno loro. Se fossimo al loro posto non saremmo impostori, saremmo semplicemente normali.

Compiere questo atto di fede riguardo agli altri aiuta a rendere il mondo più umano.

Quando incontriamo uno sconosciuto, non stiamo in realtà incontrando un estraneo, ma qualcuno che è – nonostante sembri il contrario – molto simile a noi, e di conseguenza non c’è nulla che si frapponga fra noi e le possibilità di successo e realizzazione.

 

 

 

Tratto da “Un’educazione emotiva” di Alain De Botton