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Cosa significa per me lavorare in proprio

Che cosa vogliono le donne dal lavoro

Il 90% delle persone con cui lavoro sono donne. Dipendenti o in proprio. Nel corso degli anni credo di aver lavorato con davvero un sacco di donne, e di averne conosciute per ragioni di lavoro o per altri mille motivi molte, moltissime. Uno degli argomenti principali di conversazione, davvero di qualunque conversazione, è il lavoro: l’ufficio, i colleghi e le colleghe, il capo, le fatiche, le relazioni, le fatiche di nuovo, le cose che si dovrebbero fare e le cose che realmente si fanno (di solito molte ma molte di più).

Ma cosa cercano, di cosa si lamentano le donne riguardo al lavoro? Potrei non finire in una vita, ma cerco di riassumere.

Flessibilità

Una chimera, molto spesso. Una cosa che sta solo sulla carta, o che è unidirezionale: puoi fermarti a lavorare fino a tardi e non essere pagata, e questa è la flessibilità che va bene. Oppure finire al tuo orario e poi continuare a lavorare rispondendo a mail e messaggi. Quella flessibilità lì va benissimo. Ma se sei tu a chiederla eh beh, allora no eh? cosa credi? se tutti facessero come te! e poi chi me lo dice che fuori di qui lavori davvero? Eh ma se lo concedo a te poi lo vogliono tutti!

Così sento storie di persone che hanno visto lo smartworking scomparire o essere drasticamente ridotto dopo il Covid, per essere costrette ad andare in ufficio deserto, perdendo tempo in spostamenti inutili casa-lavoro, perché così ha deciso l’azienda. Ma l’azienda è fatta di persone e queste decisioni le prendono le persone – sì, di solito uomini, lo sappiamo. Che queste decisioni siano sensate o meno è irrilevante, quali impatto abbiano sulla produttività non viene calcolato, quello che interessa è averti “sotto controllo”.

La mancanza di fiducia e l’incapacità di creare un senso di responsabilità: su questo si basano le decisioni nella maggior parte delle aziende.

Eppure la flessibilità farebbe come comodo a tutti, è una di quelle situazioni win win come si dice, dove tutti vincono. Ma siamo troppo arretrati per capirlo.

Meritocrazia

Un’altra chimera. Per raggiungere il livello e lo stipendio di un collega uomo, una donna deve fare il triplo, e molto spesso nemmeno quello basta. Di default, è meglio un uomo, per qualsiasi ruolo. Non è dappertutto così, eh? So di esempi virtuosi, ma finchè rimangono “esempi virtuosi” e non diventano la normalità, non bastano.

Sono stufa di vedere donne surclassate da uomini mediocri, sono stufa di sentire racconti di donne che fanno di fatto il lavoro manageriale ma sono inquadrate a livello 1, sono stufa di sentire storie in cui alle donne viene “rimproverato” tutto, e questo tutto non ha a che fare con il lavoro che svolgono ma a che fare con loro come persone: sorridi di più, vestiti meglio, ma come sei conciata, ma perchè oggi non sei truccata (e sto molto leggera).

C’è un problema, enorme. E gli uomini non lo vedono.

Qualcuno dice: sono le donne che devono ribellarsi, fare qualcosa, alzare la voce. Certo, è vero, ci vuole anche quello, ma ci vuole innanzitutto cultura, in generale e nello specifico cultura lavorativa. Manca, o a essere buoni scarseggia.

Cosa possono fare le donne?

Sì perché avendo avuto e avendo ogni giorno a che fare con molte donne posso dire con certezza che molto possiamo fare, e non facciamo.

Non diciamo di no, neanche sotto tortura, e questo alimenta una cultura lavorativa e aziendale tossica e mortifera per noi. Siamo sempre disponibili, perché per cultura ci è stato insegnato così, che essere sempre disponibili è ciò che siamo, Non è affatto vero, e non nemmeno vero che sei non sei disponibile allora sei egoista. Se non sei disponibile è perché hai altro da fare, perché hai delle priorità da rispettare e vuoi fare bene le cose. Le volte che le donne mi dicono che si ritrovano a fare il loro lavoro alle 18, dopo aver dato retta alle richieste di tutto l’ufficio, non le conto più: pare sia la normalità. Ma non è vero! Si può fare diversamente.

Non ci fidiamo di noi stesse e delle nostre capacità, e mettiamo nelle mani dell’altro la conferma che siamo brave a fare una certa cosa, qualsiasi cosa. Abbiamo introiettato e fatto nostra l’idea che senza un maschio a dirci “va bene” non ci sentiamo a posto, non siamo convinte di aver fatto bene il lavoro che ci è stato assegnato. E basta!

Non chiediamo, mai. Ci aspettiamo che il mondo si accorga di quanto siamo brave – cosa nella quale peraltro siamo le prime a non credere – e se non se ne accorge ci rimaniamo male e ci lamentiamo. Ma oltre a questo non andiamo. L’idea che possiamo chiedere il giusto per il lavoro che facciamo non ci appartiene: aspettiamo che arrivi qualcuno a darcelo, con benevolenza. E poi ringraziamo come se fosse un regalo. Non è un regalo! E’ il corrispettivo per il lavoro che facciamo!

Quindi:

  • impara a dire di no
  • fidati di te
  • chiedi

Ti assicuro che qualcosa cambia, e che è meno faticoso di quel che immagini!

 

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Vendere ciò che fai

Come vendere ciò che fai con più facilità

Come posso riuscire a vendere quello che faccio se non credo fortemente che valga qualcosa?
E che io, come persona, valga qualcosa? Se non ho fiducia che quello che propongo ha una qualche utilità, soddisfi un bisogno? Se vengo assalita tutte le volte da dubbi di ogni genere sulla bontà del mio prodotto, nonostante i feedback positivi?
Come possiamo avere un business, in definitiva, se non crediamo fortemente nelle nostre capacità?

Vendere senza paura

Vendere senza paura: superare remore e resistenze per vendere quel che fai

Cosa si frappone tra te e la vendita di quello che fai? Come si fa a vendere senza paura?
Certamente qualcosa lì in mezzo c’è, che ti trattiene, a cui fai resistenza, e che ti impedisce di trasformare quello che fai da hobby o passione a business vero e proprio. E io ho un’idea di cosa potrebbe trattarsi.

Il tema delle vendite che per chi lavora in proprio è un “temone”, un tema grande come una casa, che si intreccia a doppio filo con il tema autostima ma che si nutre di tantissimi altri che hanno una portata che va al di là della nostra singola persona e che riguarda anche il tempo in cui viviamo, la cultura in senso lato nella quale siamo immerse, la storia – delle donne e della loro presenza nel mondo del lavoro – e molti altri ancora, alcuni dei quali probabilmente sfuggono anche a me.

Tuttavia, vendere è necessario se vuoi vivere di quello che fai, e smetterla di fare la hobbista.

Intrecci

Ma facciamo un passo alla volta e cominciamo dall’intreccio per me fondamentale, oltre che quello su cui abbiamo qualche possibilità di cambiare le cose.
Il tema della vendita quando hai un business è che devi per forza abituarti a farlo, e invece molto spesso questo aspetto viene sottovalutato e/o rimandato (eccomi qua) nella speranza che la bontà di quello che facciamo, la soddisfazione delle persone con cui lavoriamo, sia una bacchetta magica che ci farà vendere quello che facciamo, prodotti o servizi, un giorno dopo l’altro.
Certamente questi aspetti (soddisfazione propria e della clientela, bontà di ciò che offri, e anche che ciò che vendi sia appetibile) sono fondamentali e utili per continuare a vendere, ma appunto rischiano di essere degli enormi oggetti di distrazione. Intendo dire che ovviamente ciò che scegli di fare come lavoro in proprio ti deve dare soddisfazione e altrettanto ovviamente ci dev’essere qualcun@ interessato ad acquistarlo, ma fermarsi qui non basta, e anzi a me sembra che ci concentriamo (a volte) su questi aspetti che considero ovvi, per evitare di affrontare il problema principale: perché mi faccio così tanti problemi quando si tratta di vendere quello che faccio? Perché facciamo fatica a dire che questo o quel servizio lo vendiamo e costa tot? Perché se dobbiamo raccontare al mondo cosa facciamo ce ne vergogniamo? Perché facciamo fatica a dire quanto costa il nostro prodotto o servizio? Perché abbiamo paura di mettere i prezzi di quel che vendiamo nella nostra vetrina o nel nostro sito web?

Potrei continuare a lungo con queste domande, che hanno girato a lungo anche nella mia testa, e che vedo assillare tutte, ma proprio tutte, le professioniste con cui lavoro: parlare di soldi, di soldi che vogliamo guadagnare, di quale prezzo vogliamo mettere a quel nostro prodotto o servizio, è una conversazione che ci mette sempre in difficoltà e che – in generale – non ci piace fare.
Male. Molto male.

Allora cominciamo a raccontarci che se mettiamo un prezzo a quel che facciamo, o se lo mettiamo “alto” (un termine tutt’altro che misurabile, cosa vuol dire “prezzo alto”???) nessuno vorrà comprare quello che offriamo – perché “costa troppo”, è “esagerato per quello che faccio io”, c’è sicuramente chi “lo vende a meno” per passare a teorie che lasciano il tempo che trovano come “nessuno capisce davvero il valore di quel che faccio”, e anche “nel mio settore c’è troppa competizione”, insomma cerchiamo qualcuno o qualcosa a cui dare la colpa, così ci sentiamo sollevate e non dobbiamo chiederci e riflettere su quella che è la questione fondamentale.
E la questione fondamentale che cerchiamo con ogni scusa possibile di evitare di affrontare ha un solo nome: paura.

Perché sì, la verità è che abbiamo più o meno tutte una paura fottuta di vendere, o meglio di ricevere un rifiuto da parte del mondo là fuori e piuttosto che correre questo rischio preferiamo chiedere cifre irrisorie che non coprono neanche i costi di quel che produciamo (si tratti di oggetti o servizi), o non chiedere assolutamente nulla per ciò che facciamo (qui è autosabotaggio, sia chiaro), quasi fosse immorale, o peggio: illecito, criminale, da persone ingrate o avide – a seconda dei casi.
Ma perchè mai?
Piccolo spoiler prima di continuare: non hai niente che non va!

Emozioni e vendite

Ed eccoci quindi all’intreccio (malsano, evidentemente) di cui parlavo sopra: quello tra soldi ed emozioni.
Perché attorno ai soldi, e al vendere, abbiamo tutte un sacco di emozioni, per lo più negative; tra le tante: paura, vergogna, senso di colpa… (te ne vengono in mente altre?)

Pensiamo che fare un sacco di soldi ci renderà delle persone orribili, tirchie, o snob o inavvicinabili; oppure pensiamo che cominceranno a piovere i giudizi negativi di parenti e amici, oppure ancora che se dovessimo guadagnare di più di chi ci ha formato sarebbe un problema; oppure ancora pensiamo che per guadagnare tanto dovremo lavorare tanto, che possiamo essere/avere una sola cosa tra due (o guadagni tanti soldi o hai una bella famiglia o una buona relazione, che se sei brava nel business non sarai un bravo genitore) e così via.
Ma la verità è che tutte queste convinzioni e giudizi si basano sulla nostra mentalità, non su fatti reali. Non sono un dato di realtà ma un nostro convincimento, o appunto, una nostra emozione, legato a tanti fattori diversi ed esterni a noi, che tuttavia ci condizionano.
Il problema è che tutte queste convinzioni ci zavorrano, così come tutte le emozioni negative, e ci impediscono di vendere nella maniera più serena possibile, e con risultati positivi.
Quindi ripeto: non è colpa tua! Ci sono condizionamenti che ci condizionano, appunto, ma che sono molto più grandi di noi e secolari, possiamo fare poco. Ma qualcosa possiamo fare: bisogna rendersi consapevoli del problema e affrontarlo, se hai un business e vuoi vivere di quello.

Come lavorare sulle paure riguardo alla vendita?

Mi sono interrogata tanto su questo, e continuo a farlo, perché tuttora ho delle resistenze a vendere e a farlo con intenzione e continuativamente. Ma è un allenamento anche questo, e come ogni allenamento, è la ripetizione a sviluppare i muscoli, renderlo efficace e a far ottenere risultati.
Ma come si fa questo allenamento? Io lo faccio con il journaling.
A questo punto spesso chi mi legge storce il naso, ma come? Tutto qui? Tutto qui! Ma ti avviso, è più facile a dirsi che a farsi… perciò prendi un bel quaderno, intitolalo Journaling per vendere (titolo inventato da me, ma metti pure il titolo che vuoi!) e comincia.
Ogni giorno, qualche paginetta, con le tue riflessioni sul tema: ma ogni giorno! (la costanza, si sa, è la regina dell’allenamento).
Se poi vuoi farmi sapere com’è andata, scrivimi qui, sarò felice di leggere com’è andata e di darti altri spunti.

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Cosa significa per me lavorare in proprio

Il lavoro in proprio, a modo mio

Lavoro in proprio, nel senso proprio del termine, da quando sono coach, ossia dal 2016. Ma sono sempre stata una freelance e ho raramente lavorato come dipendente. Questa più recente esperienza, tuttavia, è stata decisamente la più formativa sia grazie alla natura del lavoro che svolgo – che è di per sé formativo e di crescita – sia perché effettivamente è stata la prima esperienza da “one (wo)man show”. E ho imparato davvero un sacco di cose.

Il mindset per mettersi in proprio

Il mindset, o forma mentis, con cui vediamo noi stessi e il mondo non è un elemento immutabile ma può invece essere modificato – con un po’ di tempo e di impegno – da statica a dinamica, ovvero da un modo di pensare le capacità come qualcosa di innato al pensare che tali capacità si possono acquisire e sviluppare lungo tutta la nostra vita fino a raggiungere traguardi inaspettati.

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