“Mi sento in trappola” è una frase che ricorre spesso nelle chiacchierate con i miei clienti: sono in tanti a sentire di stare vivendo una situazione, lavorativa molto spesso, talvolta anche personale, che è diventata intollerabile. e che al tempo stesso non sappiano da che parte sbattere la testa per venirne fuori.
E’ una situazione che conosco bene, perché ci sono passata tutte le volte che poi… ho lasciato il lavoro che stavo facendo. Non mi accade da un po’, visto che questo lavoro me lo sono scelto e costruito, ma me la ricordo molto bene. E la riconosco piuttosto rapidamente in chi ho di fronte.
La sensazione di sentirsi in trappola e di non avere nessuna via di uscita è percepita da i tipi più svariati di persone: te lo aspetti da una persona rigida, chiusa dentro i suoi schemi e invece è molto più diffusa, forse perché in fondo ognuno di noi è chiuso dentro i suoi schemi, e legge la sua realtà con gli occhiali che si è messo. Poi togli gli occhiali, oppure ne metti un altro paio, e pian piano metti a fuoco la realtà in modo diverso (e io sono quel paio di occhiali, ovviamente).
Lasciare il lavoro, e le aspettative (degli altri)
Lasciare un lavoro è sempre, ma proprio sempre sempre sempre, difficile, lo è ancora di più in questo momento storico, ma la difficoltà non sta solo nel trovarne un altro – anche se la percezione che tutti abbiamo è quella – ma anche nel fare il percorso faticoso con noi stessi per arrivare a cambiare la strada che abbiamo intrapreso. Per convincerci che si può fare, ma anche che non è vero che “abbiamo sbagliato tutto e siamo dei falliti“, ma che le condizioni dentro di noi – e fuori di noi – sono cambiate. Liberarsi dall’idea che la tragedia è imminente, insomma, e che abbandonare una strada percorsa più o meno a lungo sia sinonimo di essere degli incapaci, degli inetti, dei falliti.
Certo, lo so bene, tutto là fuori congiura nella direzione opposta. Ma questo non significa che noi dobbiamo accodarci, e permettere a questa visione di impedirci di cercare e ricercare ciò che realmente vogliamo. L’ho scritto e detto tante volte e lo ripeto: è faticoso, ma è un viaggio bellissimo.
Il punto nodale è spesso questo: quanto di ciò che ci raccontiamo è veramente nostro, e quanto è il risultato di aspettative (o pressioni) altrui? Quanto ci raccontiamo è veramente nostro e quanto è il risultato di condizionamenti culturali e sociali – che tutti subiamo eh? Niente di strano.
E quanto riusciamo a vedere, davvero, quello che ci fanno questi condizionamenti e a provare a scardinarli? Molto difficile, per chiunque. Salvo avere di fianco qualcuno che li vede e ce li fa notare.
E’ davvero il lavoro ciò che vuoi cambiare?
La verità è che nessuno di noi lo sa veramente, non così di primo acchito, e lo scopre solo strada facendo. Quella è senz’altro la spia di un disagio, di una situazione che non ci fa stare, ed è la molla che ci fa “smuovere”, fare qualcosa, qualsiasi cosa, verso una risoluzione, verso l’affrontare concretamente il nostro malessere.
Così qualcuno arriva da me con un tema di lavoro, per scoprire che il cambiamento è già iniziato e riguarda una relazione; oppure arriva da me con l’idea che deve solo sistemare alcune cose nel suo approccio con il lavoro (“devo riuscire a fare tutto e tu mi devi aiutare”) e poi finisce con il licenziarsi – ho una lunga serie di licenziamenti di clienti alle spalle; oppure ancora mi racconta che ha perso la motivazione e deve ritrovarla – che è un po’ come un’artista che ha perso l’ispirazione, che è bloccato: è un casino! – e poi di motivazione ne ha in abbondanza ma per fare altro, che si “autorizza” a fare (“beh, dai non posso mica mettermi a fare…”).
Qualcuno ha già in mente delle idee da esplorare e qualcuno invece no, e vuole lasciare e basta, senza un piano B: ne ho parlato qui.
Insomma sempre dei bei puzzle da ricomporre, sempre molto interessanti, e sempre legati da temi che sono ulteriori rispetto al lavoro, ma che con esso si intrecciano quotidianamente.
Cosa fare, dunque, quando ti senti in trappola?
Credo che la cosa migliore da fare sia agire, fare qualcosa. Smettere di rimuginare, di pensare e ripensare a quel che ti sta succedendo, a cosa ha detto quello/a o a cosa ha fatto quell’altro/a: tanto non ti porta da nessuna parte, se non in un vicolo cieco. Comincia invece a fare qualcosa, qualcosa di diverso da ciò che hai sempre fatto, per esempio. Piccole cose, non serve stravolgere la propria vita (o non ancora, perlomeno!). Quando ci mettiamo in moto con un fare ci rendiamo presto conto che una voce in capitolo ce l’abbiamo, che abbiamo il potere di far andare alcune, anche piccole, cose diversamente.
E lì siamo finalmente sulla strada giusta!