Lavoro in proprio, nel senso reale del termine, da circa 6 anni nel mondo del coaching. Ma in modo “fittizio” sono sempre stata una freelance e ho raramente lavorato come dipendente. Questa recente esperienza, tuttavia, è stata decisamente la più formativa sia grazie alla natura del lavoro che svolgo – che è di per sé formativo e di crescita – sia perché effettivamente è stata la prima esperienza da “one (wo)man show”. E ho imparato davvero un sacco di cose.

Dopo aver lavorato con partita iva per diversi anni in una casa editrice, dove appunto ero freelance solo sulla carta ossia dove non mi procuravo io il lavoro, ma qualcun altro lo faceva, e io eseguivo, da quando ho cominciato a fare la coach nel 2015 sono stata io e io soltanto al timone della barca. Non che prima “facessi” del tutto la dipendente: riuscivo comunque a trovare degli spazi di manovra soprattutto con riguardo al tempo, ma in ogni caso non ero sicuramente quella che reperiva i clienti, i progetti, le consulenze.

Come lavoro adesso

Ora invece, da qualche anno, sono io quella che si occupa del marketing, delle vendite, degli acquisti, delle partnership, della logistica e di tutto ciò che serve per svolgere questo lavoro. All’inizio questo passaggio mi ha fatto una gran paura, poi quando mi sono effettivamente buttata ero molto desiderosa di imparare e di imparare a fare. Ora lo rifarei 1000 volte e sarei pronta a replicare il modello per svolgere altre attività.
Ma il coaching mi piace ancora tanto e per ora non ci penso proprio a cambiare!

Il salto più grande che ho fatto – e un grande passo fuori dalla mia comfort zone – è stato senz’altro riuscire a vendere quello che facevo, quello che faccio. E’ stato faticoso, decisamente, e ci è voluto del tempo, ma il bello del lavorare in proprio è proprio che ti devi spingere sempre un po’ più là di quello che avevi immaginato.

La crescita continua

Quando ho lasciato il lavoro precedente (in una casa editrice) non sapevo che cosa mi aspettava: mi ero iscritta al Master in coaching ma più per interesse personale che per esercitare questa professione. Avevo voglia, quella sì e tanta, di fare una salto in avanti, di studiare e di studiarmi, di scoprire aspetti di me che ancora non conoscevo e che non erano venuti a galla, o che se erano venuti a galla dovevo – avevo voglia – di approfondire. La formazione del Master in Accademia della felicità è stato tutto questo e molto di più: alla fine, dopo le ore in aula e quelle di tirocinio (100) mi sono ritrovata con un lavoro in mano, nuovo per me e nuovo per il mercato, ma che avevo imparato a fare. Su questo non avevo dubbi o perplessità.

La perplessità – o forse dovrei dire meglio: la paura – era piuttosto legata a: qualcuno vorrà darmi dei soldi per quello che offro, per quello che faccio? La risposta non avevo tanto tempo per aspettarla, avevo fatto già 100 ore di tirocinio gratuito e avevo bisogno, urgenza, di cominciare a guadagnare qualcosa: per una che ha sempre lavorato, rimanere un anno senza soldi non è stato proprio semplice. Quindi mi sono buttata. Ho sbagliato, ho fatto cose che avrei potuto fare meglio (certamente!), ma ho cominciato a vendere il mio lavoro, il coaching.

Ho studiato ancora quindi, per capire come potevo fare a vendere questa “cosa” – che una “cosa” non è, non è un prodotto tangibile che ti posso mostrare, far vedere – cercando di capire quello che le persone mi portavano, quello che mi avevano portato durante il tirocinio: quali problemi? Quali necessità? Quali insofferenze e insoddisfazioni?

E’ stato facile? Per niente. Vendere un servizio come il coaching è molto complicato.

Il futuro

Da tutti questi anni di lavoro con le persone ho capito un sacco di cose che non mi erano mai state così chiare, la prima fra tutte e che è inutile cercare di avere una visione chiarissima e precisissima di come andranno le cose prima di fare un passo, ma che bisogna fare quel passo per avvicinarsi ogni giorno che passa sempre di più ad avere una visione sempre più chiara e precisa.

Ed è questo secondo me il tema dei temi quando si tratta di mettersi in proprio: aspettare di avere il castello costruito prima di cominciare a viverci. Non funziona così. E’ destabilizzante? Forse. E’ impegnativo? Sicuramente. E’ una sfida? Certo! E’ una totale mancanza di sicurezze? Sì! E’ fare l’imprenditore, ossia rischiare.

Imprenditore = sostantivo riconducibile al verbo imprendere, proveniente dal latino volgare *imprehendĕre, ‘intraprendere’, formato dal prefisso locativo in- e prehendĕre ‘prendere’, letteralmente ‘prendere sopra di sé’, che indica l’azione di cominciare qualcosa, di avviare un’iniziativa.

E’ chiaro da questa definizione dell’Accademia della Crusca che difficilmente chi “comincia qualcosa” ne ha già ben delineati e in testa tutti i dettagli, gli aspetti, i materiali che servono e gli investimenti. Il dettaglio arriva dopo, a volte molto dopo.

Tendiamo invece a confondere quello che noi vediamo alla fine del percorso come l’unica cosa, ma in realtà prima di arrivare ci sono stati millesima passi falsi e altrettanti errori. Le biografie dei “grandi” imprenditori ce lo dicono chiaro: in quella del fondatore della Nike c’è un racconto lungo, doloroso, faticoso e carico di errori, e solo forse le ultime pagine sono dedicate all’impero che è oggi.
Prima c’è tutta la fatica, gli errori, gli scazzi, i dubbi, i debiti, le scelte sbagliate, le ricerche, lo studio: oggi, molto tempo dopo, c’è l’impero economico che tutti conosciamo. Ma all’inizio c’era solo un tizio che correva e che voleva delle scarpe più comode per farlo e si messo prima a importarle dal Giappone, e poi a farle. Fine.
Credo che sia stata una delle letture più illuminanti per me, che ha superato di gran lunga tutti i manuali sul mettersi in proprio/fare marketing/vendere servizi eccetera.

Domani

Ho deciso quindi che è arrivato il momento per me di condividere tutto quello che ho imparato in questi 6 anni, non perché abbia la pietra filosofale del “mettersi in proprio”, ma perchè credo di avere un’esperienza che potrebbe essere utile a molte (e molti – ma sono più propensa forse a farlo verso le donne): le donne hanno un sacco di belle idee che tengono lì, a mollo. E non ne cavano nulla. Non è che per forza se ne debba ricavare qualcosa eh? Però alle volte sì, e sarebbe bellissimo. Ma troppi preconcetti ci bloccano, troppe convinzioni ci limitano, troppi pensieri negativi ci circondano. E allora lasciamo perdere ancora prima di provarci. Perché in fondo un po’ ci piace trastullarci con le idee, mentre passare all’azione ci fa una paura fottuta.

E se invece ci lasciassimo tutto questo dietro le spalle?
E se ci fosse un modo rapido per saltare tutti questi anni di fatica (i miei 5-6, ma anche i 40 del fondatore della Nike!)?
E se ci fosse un modo per mettere a frutto l’esperienza di altri, senza ripartire da zero ogni volta e sentirsi da sola in una giungla di giganti?
E se ci fosse un modo per fare business diverso da quello che ci viene propinato di continuo, più centrato su chi sei tu che su 1000milla regole “giuste” da seguire?
E se ci fosse un modo meno maschile – nel senso deteriore del termine – di fare impresa? Un’impresa che non tiene conto solo dei numeri (“devi avere Xk follower”, “devi investire Xk soldi”, “devi essere su X social – tutti possibilmente”, eccetera)
E se ci fosse un modo per fare impresa basato sui “voglio” più che sui “devo”, “si fa così”, “te lo dico io, è questa la cosa giusta da fare (ndr: se viene da un uomo si chiama mansplaining, lo sai? Ebbbbbasta!!!)

Si può!

Nel percorso di coaching 1:1 che ho chiamato Un lavoro su misura per te ho messo insieme tutto quello che ho imparato fin qui, tutta l’esperienza che ho fatto, ho guardato ai miei errori e ai miei fallimenti, ho rivisto le cose che sono andate bene e ho capito perché sono andate bene, e ho messo insieme tutto, ma tutto tutto, e ora penso proprio di poter aiutare le donne che vogliono mettersi in proprio a farlo con consapevolezza e qualche strumento molto efficace.

Se invece preferisci qualcosa di più leggero (e meno impegnativo), in gruppo, puoi guardare questa cosa qui.